lunedì 2 novembre 2015

I colori dell'autunno

Le vie della città si riempiono
di foglie colorate e
i bambini, allegri,
giocano divertiti.

Lo scricchiolio delle foglie
sotto i miei piedi mi
accompagna in un nuovo mondo
dove tutto è più gioioso,
tutto è più bello.

Il calpestio di quest'anime decedute,
ma non brutte,
è una sinfonia di Natura
che non stanca,
che avvolge.

E mentre il vento,
fresco,
autunnale,
mi sferza il volto e gli occhi,
ripenso all'infanzia perduta.

E ai colori dell'autunno.


lunedì 21 settembre 2015

Dibattito sull'amore

Di seguito trovate la tenzone (opera di origine provenzale nella quale due o più poeti si scambiano strofe e poesie per discorrere e dibattere su argomenti di tipo filosofico e non solo) tra Giacomo da Lentini, Iacopo Mostacci (falconiere di Federico II) e Pier della Vigna (funzionario e consigliere dello stesso re).

La prima parte vede il sonetto iniziale di Mostacci in cui egli si chiede cosa sia veramente l'amore. Mostacci, come ripete nel sonetto stesso, non riesce a dare una spiegazione (né tantomeno una definizione) a questo potere così grande, così travolgente. Per tale ragione decide di rivolgersi agli altri due, chiedendo loro di aiutarlo.

La seconda parte include la risposta del Della Vigna il quale, a mio modo di vedere, dà una spiegazione meravigliosa dell'Amore e della sua stessa sostanza.

Tralascerò, invece, la terza parte, quella in cui il poeta principale, Giacomo, offre la propria definizione.

Il motivo di tale scelta sta nel fatto che, poiché credo che il secondo sonetto sia la parte più bella in assoluto, è altrettanto giusto dare spazio all'origine di questi versi così belli (vale a dire il sonetto del Mostacci). Escludo, dunque, quello del poeta siciliano semplicemente per una semplice e personalissima "preferenza" che mi vede più vicino alle parole del Della Vigna.


Iacopo Mostacci
Solicitando un poco meo savere

Solicitando un poco meo savere
e con lui mi vogliendo dilettare,
un dubio che mi misi ad avere
a voi lo mando per determinare.
On'omo dice ch'amor à potere
e li coraggi distringe ad amare,
ma eo no li lo voglio consentire,
però ch'amore no parse ni pre.
Ben trova l'omo una amorositate
la qual par che nasca di piacere,
e zo vol dire omo che sia amore;
eo no li saccio altra qualitate,
ma zo che è, da voi voglio audire:
però ven faccio sentenzïatore.

Pier della Vigna
Però ch'Amore no si pò vedere

Però ch'Amore no si pò vedere
e no si tratta corporalmente,
manti ne so di sì folle sapere
che credeno ch'Amore sia nïente;
dentro dal cor signoreggiar la gente,
molto maggiore pregio deve avere
che se 'l vedessen visibilemente.
Per la vertute de la calamita
como lo ferro atra' no si vede,
ma sì lo tira signorevolmente;
e questa cosa a credere mi 'nvita
ch'Amore sia, e dàmi grande fede
che tutor sia creduto fra la gente.


lunedì 10 agosto 2015

Affinità sentimentali

Ovvero come, nonostante seicento anni di distanza, l'uomo sia sempre lo stesso e conservi, dentro di sé, quelle affinità sentimentali che rendono possibili certe bellezze letterarie.

In poche parole, quella vicinanza e quella somiglianza tra Giacomo da Lentini (autore del primo 1200) e Giacomo Leopardi (a proposito di affinità...) che emergono facilmente e sensibilmente tra le righe di un verso e le immagini di una poesia.

Nei post precedenti ho copiato il secondo Giacomo, autore molto più recente, certo, eppure così profondo e per niente semplice.
Adesso, invece, voglio mostrare (e mostrarvi) il Giacomo più anziano (quello che visse prima di Dante) e che diede il via non solo alla scuola e alla letteratura siciliana, ma a quella italiana in generale (pensate che fu lui il creatore del sonetto).

Se non fosse per delle differenze linguistiche ovvie (dati i 6 secoli di distanza), sono sicuro che non sarebbe così facile riconoscere a quali dei due appartenga una o un'altra poesia.

Adesso, però, taccio. E' tempo di dar voce al Giacomo siciliano.

Madonna, dir vo voglio

Madonna, dir vo voglio
como l'amor m'à priso,
inver' lo grande orgoglio
che voi, bella, mostrate, e no m'aita.
Oi lasso, lo meo core,
che 'n tante pene è miso
che vive quando more
per bene amare, e teneselo a vita!
Dunque mor' e viv'eo?
No, ma lo core meo
more più spesso e forte
che non faria di morte naturale,
per voi, donna, cui ama,
più che se stesso brama,
e voi pur lo sdegnate:
amor, vostra 'mistate vidi maie.

Lo meo 'nnamoramento
non pò parire in detto,
ma sì com'eo lo sento
cor no lo penseria né diria lingua;
e zo ch'eo dico è nente
inver' ch'eo son distretto
tanto coralemente:
foc'aio al cor non credo mai si stingua,
anzi si pur alluma:
perché non mi consuma?
La salamandra audivi
che 'nfra lo foco vivi stando sana;
eo sì fo per long'uso,
vivo 'n foc'amoroso
e non saccio ch'eo dica:
lo meo lavoro spica e non ingrana.

Madonna, sì m'avene
ch'eo non posso avenire
com'eo dicesse bene
la propia cosa ch'eo sento d'amore:
sì com'omo in prudito
lo cor mi fa sentire,
che giamai no 'nd'è quito
mentre non pò toccar lo suo sentore.
Lo non-poter mi turba,
com'on che pinge e sturba,
e pure li dispiace
lo pingere che face, e sé riprende,
che non fa per natura 
la propïa pintura;
e non è da blasmare
omo che cade in mare a che s'aprende.

Lo vostr'amor che m'àve
in mare tempestoso,
è sì como la nave
ch'a la fortuna getta ogni pesanti,
e campan per lo getto
di loco periglioso:
similemente eo getto
a voi, bella, li mei sospiri e pianti,
che s'eo no li gittasse
parria che soffondasse,
e bene soffondara,
lo cor tanto gravara in suo disio;
che tanto frange a terra
tempesta che s'aterra,
ed eo così rinfrango:
quando sospiro e piango posar cio.

Assai mi son mostrato
a voi, bella spietata,
com'eo so' innamorato,
ma creo ch'e' dispiacerï' a voi pinto.
Poi ch'a me solo, lasso,
cotal ventura è data,
perché no mi 'nde lasso?
Non posso, di tal guisa Amor m'à vinto.
Vorria ch'or avenisse
che lo meo core 'scisse
come 'ncarnato tutto,
e non facesse motto a voi, sdegnosa;
ch'Amore a tal l'adusse
ca, se vipera i fusse,
natura perderia:
a tal lo vederia, fora pietosa.

sabato 18 luglio 2015

I tramonti di casa mia

Se c'è una cosa che mi manca dell'Italia, di casa mia, sono i tramonti.
Ed in questo momento, ovviamente, a mancarmi tantissimo sono i tramonti estivi.
Premetto che anche qui, nella lontana Inghilterra, i tramonti esistono e sono eccezionali (ma ogni cosa che sia naturale e richiami la Natura lo è).
Eppure, quei tramonti estivi di casa mia, col caldo a volte insopportabile, hanno una carica sensuale ed emotiva unica.
Sì, i tramonti di casa mia sono sensuali, sono frizzantini, sono tesi.
C'è tensione, nell'aria: c'è tensione, c'è attesa, ci sono aspettative, pensieri.
Sogni.
Una carica, ripeto, che si accumula ed esplode nei colori magici che solo il sole, col cielo, possono donare.
Sì, i tramonti di casa mia sono così e per nulla al mondo li cambierei.
Qui si può apprezzare il verde che circonda il tutto; il vento leggero che ti accarezza la pelle; le nuvole dalle forme incredibili e un cielo forse più limpido, più blu.
Ma lì, a casa mia, i tramonti sono diversi.
I tramonti anticipano la notte d'estate, una notte che può essere divertimento, relax, passione, Eros.
Ecco perché i tramonti sono sensuali: perché anticipano quel che verrà, quel che si spera avvenga, quel che non si sa, non si dice, però magari...
Così, dopo aver assaporato e sognato con un tramonto in riva al mare, la sera prende il sopravvento e con essa una miriade di sensazioni che a volte stentano ad esplodere perché tutte, insieme, si accavallano, si calpestano, fanno a botte per emergere dal cuore, dall'anima.
Eccoli, i tramonti di casa mia: l'afa che lentamente si placa, le onde del mare che risuonano incessantemente, il cielo che si fa di mille colori e l'aria, quell'aria, che fa pensare a tante cose, eppur niente dice.
E poi viene la sera.

lunedì 22 giugno 2015

Leopardi: tenero amante

Da "Il pensiero dominante"

[...] Tu sola fonte
D'ogni altra leggiadria,
Sola vera bealtà parmi che sia [...].


[...] Bella qual sogno,
Angelica sembianza,
Nella terrena stanza,
Nell'alte vie dell'universo intero,
Che chiedo io mai, che spero
Altro che gli occhi tuoi veder più vago?
Altro più dolce aver che il tuo pensiero?

sabato 20 giugno 2015

Testamento

Quando muoio, voglio che i miei organi vengano donati a gente che lotta per vivere,
perché il senso di vita e di continuità della stessa non venga perduto.
Voglio, inoltre, che le mie ceneri vengano piantate insieme a dei semi da cui possa crescere un albero,
così che la vita si rigeneri ancora una volta e le lacrime della gente accorsa a piangermi
si confondano con lacrime di gioia per la bellezza di un albero appena sbocciato.

lunedì 8 giugno 2015

La nostalgia

Ogni tanto sento delle fitte profondissime e dolore che mi falciano l'anima, mi scuotono la mente e distruggono il mio cuore.
Queste fitte la cui provenienza non conosco, ma la cui consistenza (quella sì) è ben nota, si moltiplicano, aumentano, si fanno sempre più grandi, in uno sciame vero e proprio di dolore che dura un secondo o qualche istante, ma che resta per sempre.
E' la nostalgia.
La nostalgia di tutto quello che è stato e che non è più.
La nostalgia di casa mia, la nostalgia della mia città, la nostalgia dei volti della gente, delle strade consumate, dei tramonti in piena estate e della gioia della natura.
E' una nostalgia che, per fortuna, non sempre si presenta con la stessa potenza e che latita il più delle volte, eppure è lì, sempre lì (lì nel mezzo...).
E' come un vulcano, l'anima mia, al cui interno la nostalgia bolle e ribolle, se ne sta in silenzio e attende il momento giusto per risalire, per esplodere, per sgorgare d'ogni dove.
Già, un vulcano. Non è curioso? L'anima mia è un vulcano e un vulcano cos'è, se non la mia terra stessa? Se non il posto in cui sono nato e cresciuto? Quell'espressione della natura che amo sin da bambino e che mi manca terribilmente?
Così se ne sta un'anima vagabonda, un'anima in cerca di avventure e nuovi posti da vedere e da scoprire.
Così se ne sta quest'anima: con le braccia tese verso l'alto (che è il futuro), ma gli occhi rivolti in basso (che è il passato).

domenica 7 giugno 2015

Come un romanzo

"Quel che abbiamo letto di più bello lo dobbiamo quasi sempre a una persona cara. Ed è a una persona cara che subito ne parleremo. Forse proprio perché la peculiarità del sentimento, come del desiderio di leggere, è il fatto di preferire. Amare vuol dire, in ultima analisi, far dono delle nostre preferenze a coloro che preferiamo. E queste preferenze condivise popolano l'invisibile cittadella della nostra libertà. Noi siamo abitati da libri e da amici.
Quando una persona cara ci dà un libro da leggere, la prima cosa che facciamo è cercarla fra le righe, cercare i suoi gusti, i motivi che l'hanno spinta a piazzarci quel libro in mano, i segni di una fraternità. Poi il testo ci prende e dimentichiamo chi in esso ci ha immersi: tutta la forza di un'opera consiste proprio nel saper spazzar via anche questa contingenza!"

"Il tempo per leggere è sempre tempo rubato. (Come il tempo per scrivere, d'altronde, o il tempo per amare).
Rubato a cosa?
Diciamo, al dovere di vivere.
E' forse questa la ragione per cui la metropolitana - assennato simbolo del suddetto dovere - finisce per essere la più grande biblioteca del mondo.
Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere.
Se dovessimo considerare l'amore tenendo conto dei nostri impegni, chi si arrischierebbe? Chi ha tempo di essere innamorato? Eppure, si è mai visto un innamorato non aver tempo per amare?
Non ho mai avuto tempo di leggere, eppure nulla, mai, ha potuto impedirmi di finire un romanzo che mi piaceva. La lettura non ha niente a che fare con l'organizzazione del tempo sociale. La lettura è, come l'amore, un modo di essere."

"Di tutto, ai libri facciamo subire di tutto. Ma solo il modo in cui gli altri li maltrattano ci ferisce..."

"E' cosa alquanto saggia riconciliarsi con la propria adolescenza, mentre odiare, disprezzare, rinnegare o semplicemente dimenticare l'adolescente che fummo è in sé un atteggiamento adolescente, una concezione dell'adolescenza come malattia mortale".

"L'uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo".

domenica 24 maggio 2015

Il primo amore

Tornami a mente il dì che la battaglia
D'amor sentii la prima volta, e dissi:
Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!

Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,
Io mirava colei ch'a questo core
Primiera il varco ed innocente aprissi.

Ahi come mal mi governasti, amore!
Perché seco dovea sì dolce affetto
Recar tanto desio, tanto dolore?

E non sereno, e non intero e schietto,
Anzi pien di travaglio e di lamento
Al cor mi discendea tanto diletto?

Dimmi, tenero core, or che spavento,
Che angoscia era la tua fra quel pensiero
Presso al qual t'era noia ogni contento?

Quel pensier che nel dì, che lusinghiero
Ti si offeriva nella notte, quando
Tutto queto parea nell'emisfero:

Tu inquieto, e felice e miserando,
M'affaticavi in su le piume il fianco,
Ad ogni or fortemente palpitando.

E dove io tristo ed affannato e stanco
Gli occhi al sonno chiudea, come per febre
Rotto e deliro il sonno venia manco.

Oh come viva in mezzo alle tenebre
Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi
La contemplavan sotto alle palpebre!

Oh come soavissimi diffusi
Moti per l'ossa mi serpeano, oh come
Mille nell'alma instabili, confusi

Pensieri si volgean! qual tra le chiome
D'antica selva zefiro scorrendo,
Un lungo, incerto mormorar ne prome.

E mentre io taccio, e mentre io non contendo,
Che dicevi, o mio cor, che si partia
Quella per che penando ivi e battendo?

Il cuocer non più tosto io mi sentia
Della vampa d'amor, che il venticello
Che l'aleggiava, volossene via.

Senza sonno io giacea sul dì novello,
E i destrier che dovean farmi deserto,
Battean la zampa sotto al patrio ostello.

Ed io timido e cheto ed inesperto,
Ver lo balcone al buio protendea,
L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,

La voce ad ascoltar, se ne dovea
Di quelle labbra uscir, ch'ultima fosse;
La voce, ch'altro il cielo, ahi, mi togliea.

Quante volte plebea voce percosse
Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
E il core in forse a palpitar si mosse!

E poi che finalmente mi discese
La cara voce al core, e dé cavai
E delle rote il romorio s'intese;

Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,
Strinsi il cor con la mano, e sospirai.

Poscia traendo i tremuli ginocchi
Stupidamente per la muta stanza,
Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?

Amarissima allor la ricordanza
Locommisi nel petto, e mi serrava
Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

E lunga doglia il sen mi ricercava,
Com'è quando a distesa Olimpo piove
Malinconicamente e i campi lava.

Ned io ti conoscea, garzon di nove 
E nove Soli, in questo a pianger nato
Quando facevi, amor, le prime prove.

Quando in ispregio ogni piacer, né grato
M'era degli astri il riso, o dell'aurora
Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.

Anche di gloria amor taceami allora
Nel petto, cui scaldar tanto solea,
Che di beltade amor vi fea dimora.

Né gli occhi ai noti studi io rivolgea,
E quelli m'apparian vani per cui
Vano ogni altro desir creduto avea.

Deh come mai da me sì vario fui,
E tant amor mi tolse un altro amore?
Deh quanto, in verità, vani siam nui!

Solo il mio cor piaceami, e col mio core
In un perenne ragionar sepolto,
Alla guardia seder del mio dolore.

E l'occhio a terra chino o in sé raccolto,
Di riscontrarsi fuggitivo e vago
Né in leggiadro soffria né in turpe volto:

Che la illibata, la candida imago
Turbare egli temea pinta nel seno,
Come all'aure si turba onda di lago.

E quel di non aver goduto appieno
Pentimento, che l'anima ci grava,
E il piacer che passò cangia in veleno,

Per li fuggiti dì mi stimolava
Tuttora il sen: che la vergogna il duro
Suo morso in questo cor già non oprava.

Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro
Che voglia non m'entrò bassa nel petto,
Ch'arsi di foco intaminato e puro.

Vive quel foco ancor, vive l'affetto,
Spira nel pensier mio la bella imago,
Da cui, se non celeste, altro diletto

Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.



G. Leopardi

mercoledì 20 maggio 2015

La potenza della musica

La potenza della musica non ha eguali.
La potenza della musica è in grado di stravolgerti dentro, di strapparti l'anima e scuoterti, farti a pezzi, distruggerti.
Sì, è una distruzione, ch'essa sia di gioia o di dolore. Una distruzione multiforme e multicolore, giacché non sempre si è in grado di gestire i propri sentimenti.
Ed è proprio in questa circostanza di inconsapevolezza e di cambi repentini che la potenza della musica è in grado, senza che ce ne possiamo accorgere, di pervadere il nostro corpo e consegnarlo in tutto e per tutto.
Così, la musica riesce a far sì che lacrime sgorghino dal tuo volto, all'improvviso, durante una giornata di primavera in compagnia di amici, o durante una festa, o anche solo, a casa.
Possibile? Possibilissimo!
Anzi, è la realtà.
Non si può controllare la potenza della musica, del ritmo, delle suono, delle parole.
E' un mix di emozioni e sentimenti che portano in alto, poi in basso, poi ancora in alto e di nuovo in basso.
Che le lacrime siano di gioia dinnanzi ad un pezzo di musica classica colossale o di sofferenza e nostalgia per un pezzo che ricorda determinanti momenti, le lacrime, comunque, saranno sempre lì, sulle gote, a stento e con difficoltà ritratte all'indietro.
Ma le lacrime, si sa, non possono mica tornare da dove sono uscite. Così come le emozioni e le sensazioni, bisogna che esse escano dall'interno ed espandersi, manifestarsi, esaltarsi.
Una volte che queste hanno raggiunto il mondo esterno, esse fanno parte di quello stesso mondo e così la vita va avanti. Sì, il mondo è fatto di lacrime, ma anche di sensazioni.
E di musica, oh sì. Musica che ha una potenza inaudita!




venerdì 10 aprile 2015

Meravigliarsi a casa propria

Il motivo per cui le nostre città non ci sorprendono tanto quanto quelle che si vanno a visitare sta nel fatto che per noi, le nostre città, non sono altro che casa nostra.
Tutto ciò nasce da una passeggiata fatta, per caso, tra le vie di Brick Lane e il quartiere di Shoreditch: case vecchie e malandate; negozi di indiani, arabi; murales (ma io li definirei vere e proprie opere d'arte) sui muri; spazzatura, disordine, multiculturalità e tanto altro.
Ecco, tutto questo (magari in versione limitata e con qualche piccola differenza) penso ci sia anche a Catania.
A Catania c'è di tutto e di più, eppure non mi verrebbe mai di fare una passeggiata con tanto di macchina fotografica al collo tra le strade della Civita, di S. Berillo e S. Cristoforo.
Più che altro perché non ne uscirei vivo.
Ad ogni modo, credo che anche nella mia città ci sia quella multiculturalità, quel cibo orientale, quella spazzatura e qualche murales (o scarabocchio), proprio come a Londra.
E allora perché non mi meraviglio?
Perché non pubblico foto della mia città e di certi lati "oscuri"?
Secondo me perché Catania, la mia città, è casa mia.
Ed allora, così come si fa con la propria famiglia e con le proprie mura domestiche, si cerca (e cerco) di mantenere una certa privacy, un senso di appartenenza che è gelosia, che è un tentativo di non esporsi troppo.
Al di là del fatto che, essendo la mia città, ci abbia fatto pure l'abitudine, quel che più mi preme notare è come questa sensazione di essere a casa non mi permetta di meravigliarmi di quel che invece, altrove, non mi esimo dal fare.

E tutto ciò è male, tutto ciò va recuperato. Bisogna meravigliarsi anche di casa propria.
Persino della propria città.

sabato 28 marzo 2015

La morte di Johann Strauss II

"Il 1° giugno 1899, povero Jean, in un momento di delirio, continuava a chiamare me e mia figlia incessantemente, nonostante noi fossimo state entrambe sul suo letto di morte. E quando ci riconobbe, un sorriso stanco passò sulla faccia pallida e i sui suoi occhi malinconici (che in altri tempi erano stati così brillanti) e mentre stava lottando per l'ultimo respiro, cantò una straziante canzone!
Una vecchia canzone, ben conosciuta da me e mia figlia, ma che non l'avevo mai sentita cantata da lui. Pronunciò solennemente con le sue labbra pallide delle parole che risuonarono in maniera spettrale nella stanza: Brüderlein fein, Brüderlein fein einmal muss geschieden sein! (Piccolo fratellino, piccolo fratellino, un giorno ci dovremo dividere!). Il mattino del 3 giugno mi prese la mano, la baciò due volte senza parlare. Fu la sua ultima carezza. Nel pomeriggio, alle 16.15 morì fra le mie braccia."

Adele Strauss, terza moglie del grande compositore austriaco.

lunedì 23 marzo 2015

Quel che penso

"Questo è il Fato, forza nefasta che impedisce al nostro slancio verso la felicità di raggiungere il suo scopo, che veglia gelosamente affinché il benessere e la tranquillità non siano totali e privi di impedimenti.
Invincibile, non lo domini mai. Non resta che rassegnarsi e soffrire inutilmente.
Il sentimento di disperazione e sconforto si fa più forte e cocente. Non sarebbe meglio voltare le spalle alla realtà e immergersi nei sogni?
Così tutta la vita è un'alternanza ininterrotta di pesante realtà, sogni fugaci e fantasie di felicità...
Non c'è approdo. Vaga per questo mare, finché esso non ti avvolge e ti inghiotte nelle sue profondità."

P. Tchaikovsky

sabato 21 marzo 2015

Un ritorno in stile British

Metti un giovedi' mattina, ore 6:30, a Londra.
Metti un'alba di un nuovo giorno qualsiasi, nella East London.
E metti persino un treno diretto verso il centro.
Un treno della District Line, di quelli lenti, colmi di gente, in cui non riesci a trovare un posto nemmeno a pregare.
Sembra di essere al Sud Italia ed invece no, questa e' Londra, questo e' il lato buio della capitale europea.
Il lato "est", per la precisione.
Metti che riesci a salire su quel treno (per puro caso): e' li' che inizia la lotta alla sopravvivenza.
Che poi in inverno va pure bene, dato che il calore creato da quell'ammasso di esseri umani ti rigenera dal freddo pungente della mattina inglese.
La realta', pero', e' che una volta salito su quel treno non puoi far altro che osservare chi ti sta intorno ed e' proprio allora che capisci, capisco.
Vedi gente che dorme, gente con le cuffie alle orecchie, gente che gioca al telefonino e alcuni (pochi) che leggono.
Poi ci sono quelli in piedi, proprio come te.
Poche donne, molti uomini, tutti uniti dalla stessa ed identica caratteristica: sono lavoratori.
Proprio cosi': il lato buio di Londra sta tutto in quel treno che, da Est, si dirige verso il centro e poi verso Ovest, passando per i quartieri di lusso quli Westminster, Kensington, Notting Hill.
Gia', ma che ne sanno quei lavoratori della bellezza di una casa comoda e pulita, grande e spaziosa, in pieno centro?
I lavoratori che affollano il treno sono per lo piu' gente dell'Est (che coincidenza!) Europa.
Polacchi, russi, serbi, romeni, ucraini: e' gente che il freddo lo conosce bene, cosi' come il lavoro manuale, il lavoro di sacrificio e di dolore. Il lavoro che conta, perche' e' proprio grazie a loro che quegli stupidi ricconi di South Kensington hanno un tetto sotto cui dormire.
Lungi dal voler essere apostrofato quale razzista o xenofobo, la mia considerazione riguarda una visione un po' piu' umana di questa citta' che mi ha accolto cinque mesi fa e che tutti conoscono per lo splendore, per il Big Ben e il London Eye e per la ricchezza in generale.
In realta', quando si vive in una metropoli quale Londra, non e' difficile imbattersi in situazioni simili alla mia ed e' proprio cio', a mio modo di vedere, che ti permette di capire la citta', di conoscerla al meglio nella vita di tutti i giorni.
Perche' si', in fondo questa non e' altro che la vita di tutti i giorni: treni colmi, soprattutto all'alba e al tramonto; gente con i pantaloni e le felpe sporche di vernice e di sudore e chi piu' ne ha piu' ne metta.
Che piaccia o no, Londra e' anche questa.