martedì 19 gennaio 2016

Una donna

Ho concluso da poco il romanzo di Sibilla Aleramo (alias Marta Felicina Faccio) "Una donna". Un romanzo che mi ha coinvolto, straziandomi e deliziandomi al tempo stesso.
Lo stile con cui la Aleramo descrive parte della propria vita è uno di quelli che non ti lascia mai e che, una volta terminato il racconto, ti rimane dentro per diversi giorni.
E', inoltre, uno stile che molte scrittrici e molti scrittori moderni non hanno, eppure il racconto in sé sembra faccia parte della attualità dei nostri giorni. In realtà, quel che più mi sorprende è pensare che l'anno di pubblicazione reciti 1906.
Un secolo fa.
Cent'anni.
Vi prego, leggetelo (se vi va, se potete). Il modo in cui scrive quel che scrive potrebbe benissimo appartenere ad una donna d'oggi.
E' meraviglioso, è la bellezza della letteratura, della letteratura ai suoi massimi livelli nelle mani di una donna forte, coraggiosa, bella dentro e fuori e che ha fatto la storia (che lo si voglia o meno).
Di seguito, trascrivo alcuni dei pezzi più emozionanti del libro.

Amare e sacrificarsi e soccombere! Questo il destino suo e forse di tutte le donne?

Io avevo bisogno di ammirare innanzi di amare. Accettando l'unione con un essere che m'aveva oppressa e gettata a terra, piccola e senza difesa, avevo creduto di ubbidire alla natura, al mio destino di donna che m'imponesse di riconoscere la mia impotenza a camminar sola. 

Talvolta, al mattino, abbiamo la sensazione nitida d'aver passato una notte densa di sogni e di fantasmi grandiosi, e d'aver vissuto in fuggevoli istanti di dormiveglia una vita profonda, ma non riusciamo a ricostruire le visioni né a rifare i pensieri notturni; e ci accorgiamo poi che ogni nostra nuova azione veramente essenziale non stupisce noi stessi perché la nostra intima sostanza ne aveva avuto l'avviso.

Alfine mi riconquistavo, alfine accettavo nella mia anima il rude impegno di camminar da sola, di lottare da sola, di trarre alla luce tutto quanto in me giaceva di forte, d'incontaminato, di bello; alfine arrossivo dei miei inutili rimorsi, della mia lunga sofferenza sterile, dell'abbandono in cui avevo lasciata la mia anima, quasi odiandola. Alfine risentivo il sapore della vita, come a quindici anni.

Povera vita, meschina e buia, alla cui conservazione tutti tenevan tanto! Tutti si accontentavano: mio marito, il dottore, mio padre, i socialisti come i preti, le vergini come le meretrici: ognuno portava la sua menzogna, rassegnatamente.

[...] Quasi tutti i poeti nostri hanno finora cantato una donna ideale, che Beatrice è un simbolo e Laura un geroglifico, e che se qualche donna ottenne il canto dei poeti nostri è quella ch'essi non potettero avere: quella ch'ebbero e che diede loro dei figli non fu neanche da essi nominata. Perché continuare ora a contemplar in versi una donna metafisica e praticare in prosa con una fantesca anche se avuta in matrimonio legittimo? Perché questa innaturale scissione dell'amore? Non dovrebbero i poeti per primi voler vivere una nobile vita, intera e coerente alla luce del sole? 

La giustizia non può venir soffocata, perché arde.

Questi sono solo alcuni dei frammenti più belli e intensi dell'intero romanzo, ma, come per qualsiasi altro libro, il consiglio è quello di leggerlo per intero e scoprire, in ognuno, quel che la Aleramo ha in serbo per voi lettori.

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