lunedì 10 agosto 2015

Affinità sentimentali

Ovvero come, nonostante seicento anni di distanza, l'uomo sia sempre lo stesso e conservi, dentro di sé, quelle affinità sentimentali che rendono possibili certe bellezze letterarie.

In poche parole, quella vicinanza e quella somiglianza tra Giacomo da Lentini (autore del primo 1200) e Giacomo Leopardi (a proposito di affinità...) che emergono facilmente e sensibilmente tra le righe di un verso e le immagini di una poesia.

Nei post precedenti ho copiato il secondo Giacomo, autore molto più recente, certo, eppure così profondo e per niente semplice.
Adesso, invece, voglio mostrare (e mostrarvi) il Giacomo più anziano (quello che visse prima di Dante) e che diede il via non solo alla scuola e alla letteratura siciliana, ma a quella italiana in generale (pensate che fu lui il creatore del sonetto).

Se non fosse per delle differenze linguistiche ovvie (dati i 6 secoli di distanza), sono sicuro che non sarebbe così facile riconoscere a quali dei due appartenga una o un'altra poesia.

Adesso, però, taccio. E' tempo di dar voce al Giacomo siciliano.

Madonna, dir vo voglio

Madonna, dir vo voglio
como l'amor m'à priso,
inver' lo grande orgoglio
che voi, bella, mostrate, e no m'aita.
Oi lasso, lo meo core,
che 'n tante pene è miso
che vive quando more
per bene amare, e teneselo a vita!
Dunque mor' e viv'eo?
No, ma lo core meo
more più spesso e forte
che non faria di morte naturale,
per voi, donna, cui ama,
più che se stesso brama,
e voi pur lo sdegnate:
amor, vostra 'mistate vidi maie.

Lo meo 'nnamoramento
non pò parire in detto,
ma sì com'eo lo sento
cor no lo penseria né diria lingua;
e zo ch'eo dico è nente
inver' ch'eo son distretto
tanto coralemente:
foc'aio al cor non credo mai si stingua,
anzi si pur alluma:
perché non mi consuma?
La salamandra audivi
che 'nfra lo foco vivi stando sana;
eo sì fo per long'uso,
vivo 'n foc'amoroso
e non saccio ch'eo dica:
lo meo lavoro spica e non ingrana.

Madonna, sì m'avene
ch'eo non posso avenire
com'eo dicesse bene
la propia cosa ch'eo sento d'amore:
sì com'omo in prudito
lo cor mi fa sentire,
che giamai no 'nd'è quito
mentre non pò toccar lo suo sentore.
Lo non-poter mi turba,
com'on che pinge e sturba,
e pure li dispiace
lo pingere che face, e sé riprende,
che non fa per natura 
la propïa pintura;
e non è da blasmare
omo che cade in mare a che s'aprende.

Lo vostr'amor che m'àve
in mare tempestoso,
è sì como la nave
ch'a la fortuna getta ogni pesanti,
e campan per lo getto
di loco periglioso:
similemente eo getto
a voi, bella, li mei sospiri e pianti,
che s'eo no li gittasse
parria che soffondasse,
e bene soffondara,
lo cor tanto gravara in suo disio;
che tanto frange a terra
tempesta che s'aterra,
ed eo così rinfrango:
quando sospiro e piango posar cio.

Assai mi son mostrato
a voi, bella spietata,
com'eo so' innamorato,
ma creo ch'e' dispiacerï' a voi pinto.
Poi ch'a me solo, lasso,
cotal ventura è data,
perché no mi 'nde lasso?
Non posso, di tal guisa Amor m'à vinto.
Vorria ch'or avenisse
che lo meo core 'scisse
come 'ncarnato tutto,
e non facesse motto a voi, sdegnosa;
ch'Amore a tal l'adusse
ca, se vipera i fusse,
natura perderia:
a tal lo vederia, fora pietosa.